14 Il marketing della politica

Possiamo cercare di riassumere quanto abbiamo esposto nel cercare di individuare le ragioni di un comportamento criminale troppo diffuso per non avere che delle spiegazioni basate sulla fallibilità della natura umana.
In primo luogo abbiamo osservato un carattere comune: il porre l'etica del comportamento in secondo piano rispetto a valori più o meno sociali ritenuti più importanti, il ritenere che gli obbiettivi della propria azione politica trascendano considerazioni etiche.
In secondo luogo il credo spesso fanatico, talora ragionato ma sempre non razionale, nella validità di una analisi precostituita della realtà politica e sociale, e al tempo stesso il ritenere indispensabile il riconoscersi in tale analisi precostituita, cioè in una ideologia per potersi occupare di politica.
In terzo luogo una teoria elitaria della società, e ovviamente il ritenersi parte di una élite.
Ognuno di questi elementi è in sinergia con gli altri due: elitismo, ideologismo, relativismo etico (si intenda: disconoscere il primato della legge etica dentro di noi in relazione ai rapporti umani) , si incatenano l'un l'altro in un mutuo rinforzarsi. Soprattutto è la tradizione culturale, che subisca o meno pressioni dall'ambiente, a far sentire 'a posto' il politico delinquente. Per tradizione culturale si evidenzia, per esempio, una religione come il cristianesimo Paolino o il Calvinismo, con il loro ossequio al potere costituito o al successo sociale ritenuto segno divino; oppure la prassi della classe politica dominante e la prassi giurisprudenziale che hanno formato l'ambiente culturale in cui si è sviluppata la corruzione generalizzata finalizzata al finanziamento illegale ai partiti nell'Italia del secondo dopoguerra.

Ma c'è anche un particolare meccanismo formale della organizzazione politica in senso lato che rinforza le tre componenti elencate. Un sistema elettorale che premia l'ideologismo e l'elitismo è ovviamente destinato a rafforzare, come pressione selettiva ambientale premiante, l'ideologismo e l'elitismo. A sua volta questa positiva pressione ambientale rinforza il relativismo etico, pone le problematiche etiche fuori da ciò che è ritenuta la realtà vera, ridefinisce il bene e il male in accordo con la particolare concezione ideologica e la generale concezione elitaria del far politica. Un sistema istituzionale che premi l'elitismo e l'ideologismo è destinato a rinforzare l'elitismo e l'ideologismo, e questo rinforzo determina in larga parte un certo immobilismo istituzionale: le istituzioni cessano di adeguarsi agli eventuali mutamenti sociali e culturali, e finiscono per ostacolarli. La ragione è ovvia: le istituzioni sono le garanti di una vita politica per la quale i partiti politici sono le arene di formazione delle ideologie, la politica è scontro di ideologie, gli attori della politica sono i migliori, che naturalmente sono anche i dirigenti dei vari partiti politici. Se le istituzioni sono la garanzia di questa concezione della politica, è chiaro che chi ha questa concezione della politica difenderà quel tipo particolare di istituzioni che sono consustanziali a tale concezione. Siamo quindi davanti a un sistema autorigenerante.
I risultati non si limitano a creare una classe politica maggioritariamente criminale: se la società funzionasse ci sarebbe da discutere se un astratto primato dell'etica sia da ritenersi ragione sufficiente per modificare l'intera organizzazione della vita politica.
Il fatto è che una società politicamente gestita nel modo suddetto non funziona, non ha funzionato, e probabilmente non può funzionare. La società deve poter modificare le proprie istituzioni quando esse sono di ostacolo alle modificazioni sociali che si sono sviluppate. La società deve poter abbandonare un progetto sociale se questo non funziona.
La società è la risultante di un accordo tra individui sui valori di base, nessuno può essere obbligato a rispettare un accordo che non ha mai sottoscritto. Se la società non vuole regolare i rapporti tra i suoi membri in base alla legge del più forte, non è ammissibile che tali rapporti vengano regolati in base alla legge del più intelligente: i valori base di cui sopra sono valori etici, e all'etica politica va dato quel primato che ci distingue dai primati e dai loro immediati successori.
Se ciò è giudicato vuoto e astratto moralismo, che tanto il mondo va in un altro modo, se si pensa che i valori etici non sono commestibili e che invece bisogna creare le condizioni perché ci sia giustizia sociale, se si pensa che l'etica del non fare agli altri ciò che non vogliamo sia fatto a noi non sia sufficiente e che il solidarismo sia essenziale al punto da doverlo rendere obbligatorio, la risultante sarà una dubbia prospettiva sociale e una certa delinquenzialità politica.
Relativismo etico, ideologismo, elitismo, come è noto, hanno prodotto felici e giuste società, ma solo nelle menti di quegli imbecilli che li hanno propagandati. Nella realtà storica la politica di una élite ideologizzata ha sempre prodotto infelicità, ingiustizia, e miseria materiale.

Ma ci sono altri aspetti costitutivi del politico delinquente, aspetti inerenti la teoria dell'élite e la scelta ideologica, in cui la colpa del comportamento criminale sembra essere a carico degli elettori piuttosto che degli eletti, delle masse piuttosto che dei loro rappresentanti. Vincenzo Cuoco nella sua storia della fallita rivoluzione napoletana osserva come il popolo si muova solamente per bisogno, e come i Giacobini napoletani non abbiano tenuto conto di questo semplice fatto. Ora non è da credere che la realtà sociale del Regno delle due Sicilie verso la fine del 1700 fosse meglio della realtà sociale della Francia, ma sembra che i bisogni del popolo meridionale non coincidessero con quello che i Giacobini pensavano che tali bisogni fossero, o forse non si sono spiegati bene, o forse hanno fatto proclami scritti a una moltitudine di analfabeti e se ci fosse stata la radio le cose sarebbero andate diversamente. Anche Pisacane è incorso nello stesso problema, e forse per gli stessi motivi, e la sua vicenda è tragicamente simile a quella di Chè Guevara. Se d'altronde Pisacane e Chè Guevara avessero tentato di seguire una via democratica alla rivoluzione, si sarebbero scontrati con l'indifferenza e l'incomprensione in maniera meno acuta, ma non certo meno forte. Il fatto è che molti elettori vivono appunto la vita politica come una lunga serie di riunioni condominiali, e cercano di evitare tali riunioni come la peste. Al tempo stesso si incazzano come delle iene quando il condominio decide, in loro assenza, che le tende sui balconi devono essere verdi anziché rosa, o che il cancello deve stare aperto invece che chiuso, o quant'altro.
Sappiamo ancora poco del comportamento sociale dei membri di una società moderna, anzi a dire il vero non sappiamo neppure se esista un modulo comportamentale che possa definirsi comportamento sociale. Molto di quanto sappiamo sono informazioni di seconda mano del marketing, del franchising, della pubblicità anima del commercio. Taluni credono che la televisione sia vitale per la pubblicità, e la pubblicità vitale per il commercio (e per la televisione) , ma la televisione, per esempio, comincia a non fare più presa su generazioni che sono nate con essa. Forse il successo iniziale della televisione era dovuto alla sua eccezionale novità. Come i nostri cugini primati noi ci appassioniamo della novità, ma poi finiamo per stancarcene. Il concetto stesso di comportamento sociale è indispensabile per tutti coloro che vendono qualcosa: scoprire cosa determina l'acquisto di un prodotto è talmente importante da far tralasciare la possibilità che quella stessa cosa non esista.
Pare che l'origine della vita sociale non strettamente tribale sia da far risalire a certi luoghi geografici dove avveniva lo scambio di manufatti. L'origine della moneta come sostituto del valore di scambio non pare essere stata la risultante di un comportamento sociale predeterminato, ma una semplice operazione logica. Se così fosse, potremmo pensare che nulla in realtà determina l'acquisto di un prodotto, che tutta la teoretica del marketing è pura illusione. L'etologia umana non può neppure produrre una ipotesi di vantaggio per la specie dal carattere comportamento sociale. Forse l'impostazione sociobiologica potrebbe ipotizzare che il fatto culturale della nascita della moneta come merce di scambio abbia rappresentato un notevole vantaggio nei confronti della pressione selettiva. Si tratterebbe quindi di un meccanismo appreso e trasmesso attraverso l'ereditarietà culturale. Di un meccanismo casualmente appreso, rinforzato dal vantaggio selettivo, e sfociato nei nostri tempi nel consumismo di massa. Ma un consumismo generalizzato quale mai vantaggio selettivo potrebbe dare? Ovvero se si raggiungesse un benessere sociale generalizzato il consumismo non cesserebbe di avere qualsivoglia vantaggio selettivo, con buona pace degli ideologi del marketing? Il fatto è che gli ideologi del marketing sono costretti a presentare il concetto di comportamento sociale come un dogma di fede. Ora può darsi benissimo che esista un modulo comportamentale sociale, anzi molto lo lascia credere, ad eccezione della teoretica del marketing. Eppure coloro che si occupano e preoccupano di fare politica e di propagandare, fare proselitismo, chiedere e organizzare il consenso, credono seriamente che le tecniche del marketing siano il paradigma da seguire.

Quali sono i motivi che spingono un individuo a occuparsi di politica? Nella nostra società ciascuno sembra volere essere sempre meno suddito, sembra voler divenire sempre di più un anarchico. Le tecniche del marketing si sono dimostrate fallimentari, a lungo andare, nel fare proselitismo e organizzare il consenso. Questa affermazione potrà apparire smentita sul breve periodo perché, occasionalmente, una specifica tecnica di marketing sembrerà avere un grande successo. Ma per quella specifica tecnica di marketing che ha avuto successo, altre ce ne saranno che successo non avranno avuto. E la stessa tecnica quasi mai riesce a stabilirsi nel tempo, ad avere cronicamente successo. La tanto declamata tecnica della vendita porta a porta può essere concepita come la dichiarazione di fallimento di ogni altra tecnica di marketing, è infatti l'unica modalità che rimanga dopo avere provato, e fallito, tutte le altre. Non è una questione di marketing, è una questione di logica con un pizzico di disperazione. Se così è, ed è molto possibile che così sia, non si può pensare più o meno lo stesso del proselitismo porta a porta? Se i testimoni di Jeova, che praticano il proselitismo porta a porta, dovessero giudicare dei risultati della loro tecnica alla luce delle moderne teorie di marketing, credo che probabilmente cesserebbero il loro incessante bussare alle porte. Ma per loro una anima convertita vale tutte le fatiche del mondo, e questo non vale per un venditore ambulante. Pur tuttavia si teorizza che la televisione sia come la porta di una casa con milioni di abitanti; ma è esattamente in questa similitudine, indubbiamente vera, che si evince il fallimento della teoretica del marketing. Ovvero il marketing, e la sua teoretica, si riducono al semplice estro individuale del venditore e alla presentazione del messaggio al maggior numero di persone possibili. Il che, indipendentemente dal messaggio, è ciò che si fa nel proselitismo politico e nella creazione del consenso.
In questi termini la presentazione di un messaggio ideologico sembra di comprovata maggior facilità rispetto alla presentazione di un messaggio logico. E un messaggio elitario, privilegiato, talora e paradossalmente sembra avere più successo nel grosso pubblico rispetto a un messaggio dichiaratamente popolare; l'apparente illogicità di questo fatto si spiega col rilevare che si tratta sempre di una turlupinatura. Onde per cui un messaggio ideologico ed elitario si trova spesso nella necessità di mascherare più che evidenziare il suo carattere elitario.
Dicendo queste cose ho naturalmente in mente Paolo di Tarso che, senza mass media, senza aerei, ne treni, ne autobus, girando di porta in porta, ha messo in piedi una organizzazione che, a due mila anni di distanza, ne conserva ancora intatto lo spirito e la natura. Se si dice che le idee non sono come le merci, che la politica non è un mercato, si dice una cosa giusta e al tempo stesso si nega una realtà che è sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, per parafrasare Paolo, bisogna crederci perché è assurdo, come spesso appare assurda la fede nella ragione davanti alla irragionevolezza del mondo.
E allora che fare? Quando una idea giusta, ma chi dice mai che l'idea è giusta, soccombe a una idea ingiusta solo perché quest'ultima ha scelto una tecnica di marketing favorevole, ha avuto magari fraudolentemente o colla forza del denaro accesso ai mass media, negato all'altra idea, quando si crede che le cose possano andare così a causa dell'irragionevolezza del mondo, non è tutto questo una sorta di alibi, una sorta di rinuncia, ingenua se la si confronta alla pseudo rinuncia della Grande Chiesa che, affermando che il suo regno non era di questo mondo, se ne è appropriata in gran parte?
Insomma è possibile che non sia possibile organizzare le idee invece di organizzare il consenso, che non sia possibile fare discussioni logiche di porta in porta invece che proselitismo? O non è forse vero che il contrario è più facile solo perché è inganno, aria fritta, turlupinatura, o nel migliore dei casi fanatico messaggio rivolto al lato peggiore e più irrazionale della natura umana?
 
 
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