11 Sortilegi e sorteggi

Parlando di metodi elettorali il sorteggio va  ricordato come una forma di elezione a cariche sociali, di carattere religioso e amministrativo, della comunità primitiva, sia essa clan, tribù o nazione. Il sorteggio presuppone che la società in cui è usato abbia due caratteristiche:
1) sia assolutamente egualitaria. Tutti i membri sono uguali davanti agli dei e davanti alla collettività.
2) tutti i membri siano assolutamente d'accordo su questioni politiche e sociali fondamentali per la vita della collettività, ovvero che la società sia di tipo collettivistico e totalitario.
Questioni come il significato e il destino della comunità, la sua risposta a problemi come la fame, le avversità ambientali, l'aggressione, possono dar luogo a divergenze anche feroci; l'accordo tra tutti i membri può anche essere inteso come l'accettare. far proprie, le decisioni della maggioranza dopo una opportuna discussione. Insomma una comunità primitiva i cui membri sono tutti fratelli e che agisce come se fosse una cosa sola.
Il sorteggio era per esempio usato per eleggere il Sommo Sacerdote a Gerusalemme, ed esistono testimonianze dell'uso del sorteggio per eleggere i capi presso una serie di tribù primitive. Il termine 'sorteggio' ha la stessa etimologia di 'sortilegio': si trattava, attraverso un sortilegio, di stabilire chi gli spiriti, più tardi gli dei, poi Dio, volessero far governare la comunità. Presupposto all'utilizzo del sortilegio era una concezione panteista della vita, con un Dio che, attraverso la sorte, faceva conoscere la sua volontà. Quindi il sorteggio come metodo di elezione dei capi implicava l'accettazione della sorte, del fato, come espressione della volontà di Dio.
Caduta in discredito la concezione della vita dominata dagli spiriti, la concezione della religione come pratica del rapporto cogli spiriti, rimane valido, se non altro come programma politico, il concetto di uguaglianza di tutti gli uomini, davanti alla legge e altrove. In questo programma egualitario il sorteggio alle cariche pubbliche può essere auspicato come metodo sostanzialmente democratico di elezione, laddove la decisione politica su che cosa fare sia già stata presa (p. es. per la nomina di amministratori di enti pubblici, o l'elezione dei giurati, o il controllo dei seggi elettorali), o laddove sia praticabile una
forma di democrazia diretta.
Potremmo infatti definire le caratteristiche attuali del sorteggio come un metodo di elezione a cariche pubbliche che si effettua tra individui assolutamente uguali, quando è già stato definito nei dettagli il programma da svolgere. Non ha importanza chi di questi individui governi, anzi la comunità potrebbe richiedere che i propri membri siano tutti egualmente disponibili a prestarsi come servizio alla politica. La politica come servizio e l'uguaglianza di tutti i membri della comunità sono concetti non più rivoluzionari, ragionevoli, e probabilmente utili in determinate circostanze.

Nelle democrazie moderne la democrazia diretta è stata largamente abbandonata in favore di varie forme di democrazia rappresentativa, si è posto il problema di come eleggere, di come scegliere i rappresentanti. Nell'elezione dei rappresentanti il sorteggio non sembra adatto ne praticabile. Tuttavia assemblee di rappresentanti potrebbero in linea teorica ricorrere al sorteggio per nominare i membri dell'esecutivo laddove ci fosse sostanziale unanimità. Alternativamente la maggioranza potrebbe eleggere per sorteggio i membri dell'esecutivo, confermando attraverso l'uso frequente del referendum consultivo la permanenza di una volontà comune o comunque maggioritaria nel contesto di specifici problemi, non definiti al momento delle elezioni dei rappresentanti.
La democrazia referendaria potrebbe essere una forma di compromesso tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Si dirà che l'uso frequente del referendum svilisce la nobiltà della politica rappresentativa: ma se la politica non può essere ridotta a pura amministrazione degli affari pubblici e alla tecnica migliore di come eleggere gli amministratori, tanto meno può essere lasciata interamente nelle mani degli 'eletti' , senza nessun controllo.
La proposta di utilizzare il sorteggio per l'elezione, per esempio, dei candidati al parlamento, farà gridare allo scandalo chi ritiene invece che debbano essere i partiti politici a indicare la rosa dei candidati alle elezioni. Ma le elezioni del parlamento, o di qualunque altra istituzione, sono concepibili come un controllo dell'attività svolta, e i partiti politici dovrebbero occuparsi di discutere di programmi più che preoccuparsi di controllare chi dovrà realizzarli. Uno degli errori della partitocrazia è consistito nel fatto che i partiti stessi controllavano l'esecuzione dei loro programmi, controllando strettamente il loro gruppo parlamentare sottraendo agli elettori tale funzione. Parrebbe meglio sostenere che non importa come vengono scelti i capi, o i rappresentanti, purché possano sempre essere cambiati se non danno buona prova di se. Pertanto se fosse possibile sostituire prontamente chi ha agito male, se lo si potesse allontanare dal parlamento o da qualunque altra carica attraverso un voto di sfiducia, anche il sorteggio andrebbe bene come metodo elettorale: è in ultima analisi una libera scelta dei cittadini scegliere i loro rappresentanti e il modo con cui tale scelta deve essere fatta.
La funzione dei partiti sarebbe quella di rappresentare le parti in cui la società si divide su questioni di interesse generale, di elaborare soluzioni ai problemi che si presentano alle varie componenti della società, insomma di sopperire alla impossibilità pratica di una democrazia diretta. La società moderna, aperta e democratica, all'opposto della società primitiva, è caratterizzata dalla varietà delle posizioni, dei comportamenti, delle filosofie esistenziali. Il problema di raggiungere delle decisioni è quasi sempre, anche se non drammaticamente, un ridiscutere se i dissenzienti vogliono continuare a far parte della comunità oppure se il dissidio è tale da far preferire il divorzio. In questo senso le decisioni politiche sono sempre nobili. L'uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e altrove, per esempio, è un programma politico tuttora importantissimo, per il quale è necessario un impegno attuale e storico continuo e ininterrotto, e che è continuamente rimesso in discussione nei suoi effetti pratici (si pensi alla aberrante interpretazione di questo principio fatta dai sindacati dei lavoratori con la politica del salario uguale per tutti). Sono queste discussioni che devono godere di libertà incontrollata, e non certo l'attività di amministrazione del denaro pubblico.
Tuttavia il programma politico dell'uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e altrove si scontra, teoricamente e praticamente, colla tesi che gli uomini politici siano dotati, o debbano essere dotati, di una competenza specifica per governare. Comunemente si attribuisce a Platone la tesi che debbano essere i 'migliori' a governare, col noto esempio che nessuno penserebbe di andare dal capitano di una nave e di spiegargli come governare la navigazione. La risposta a questa apparentemente logica posizione è che sono comunque i passeggeri a decidere dove la nave va, e non certo il capitano. E soprattutto in duemila e più anni di storia la definizione di 'migliori' sfugge ancora a una precisa esplicazione. Le costituzioni delle società aperte e democratiche specificano che tutti i cittadini sono eleggibili a qualunque carica del governo, e nessuna indica criteri di scelta dei 'migliori'. Sembra insomma che tali criteri non esistano all'infuori della libera scelta dei cittadini, cioè all'infuori di elezioni libere. Pur tuttavia filosofi e politologi spesso sottintendono che gli uomini politici, per il solo fatto di essere tali, rappresentano di fatto 'i migliori' e che su questa base acquisiscano il diritto di governare. Questo è un pervertimento della logica democratica che, volenti o nolenti, pone tutto il potere nelle mani del popolo, degli elettori e delle loro libere scelte. Il fatto è che la formulazione di Platone è stata la base di tutti gli assolutismi ed è assolutamente inconciliabile con un sistema democratico.
Il problema è di definire il rapporto tra partiti politici, politica, e istituzioni democratiche, tra eletti e elettori. Non partiamo da zero e sappiamo che l'acquisizione culturale e sociale della divisione dei poteri -esecutivo, legislativo e giudiziario- è una grossa conquista della civiltà. Sappiamo poi che la realizzazione della società democratica richiede un controllo reciproco tra i tre poteri citati. Il problema del controllo è essenziale alla vita democratica, ne è la caratteristica fondamentale. Ciò che non sembra essere sufficientemente apprezzato è che le elezioni politiche sono essenzialmente una forma di controllo ancor prima che una scelta su chi deve governare. Conseguentemente tutte le discussioni sui metodi elettorali dovrebbero preoccuparsi di rispondere alla domanda 'come controllare gli eletti' più che alla domanda' chi deve essere eletto'. (Popper)
In altre parole il problema non è di come scegliere i 'migliori' , ma di come eliminare i peggiori.
Per chiarire questo punto immaginiamo, in linea puramente teorica, di dare inizio a una nuova repubblica all'anno zero, e di porci immediatamente il problema del controllo. Sorge spontanea la domanda: controllo di che, visto che, nella nostra immagine siamo all'anno zero? Sempre nella nostra immaginazione supponiamo di estrarre a sorte fra tutti i cittadini i membri del parlamento. Cosa faranno costoro? Qualunque cosa facciano, essi verranno, dopo un certo periodo di tempo sottoposti a controllo secondo modalità da definire: chi ha operato male verrà dimissionato, chi ha operato bene verrà confermato.
Il fatto è che il problema del controllo democratico viene di solito occultato dall'esigenza di stabilire come si realizza la volontà della maggioranza, cioè di stabilire quale dei vari programmi proposti dai partiti politici riscuota la maggioranza dei consensi e debba quindi essere realizzato.
Nell'epoca in cui il termine 'partito politico' è sinonimo di comunità ideologica, cioè di comunità di persone che hanno abbracciato tutte la stessa visione del mondo e della vita, il controllo democratico si limiterebbe a un conteggio numerico degli aderenti alle varie sette politiche. La più numerosa -qualunque cosa si intenda con 'la più numerosa'- avrebbe il diritto di governare. In questa ipotesi la nobiltà della politica si ridurrebbe a una conta aritmetica, soprattutto a causa della impermeabilità delle ideologie a critiche e modifiche. Una forza politica non ideologica potrebbe operare in tale sistema perché le ideologie sono incapaci, per la loro natura pregiudiziale, di affrontare le novità e i cambiamenti, ma il sistema rimarrebbe sostanzialmente bloccato a causa dell'esaurirsi della lotta politica a proselitismo vicendevole. Quindi la lotta politica consisterebbe in reiterati tentativi di convincere il prossimo della propria verità, e il controllo democratico sarebbe, come detto, la pura conta aritmetica dei vari gruppi possessori delle varie verità. In tutto questo c'è ben poca nobiltà e molto fanatismo.

Di fatto esiste una profonda contraddizione tra società ideologica, cioè una società in cui i partiti politici rappresentano una precisa ideologia, e una società metodologica, cioè una società in cui i partiti politici hanno compreso la futilità di voler far rientrare il mondo nella propria ideologia, e accettano il ruolo di coordinatori delle volontà degli individui, ci si augura liberati dai pregiudizi. E malgrado quanto dice Woody Allen, che Dio è morto, le ideologie sono morte, e anche noi non ci sentiamo molto bene, la concezione che è impossibile far politica senza una ideologia -quanto meno di riferimento- è dura a morire. Se si accettasse una semplice modifica del punto di vista, cioè l'idea che le elezioni sono il momento del controllo democratico sull'attività svolta, e non la semplice conta dei membri delle varie sette ideologiche, questo aiuterebbe tutti a comprendere che cosa è la partecipazione alla vita politica. Anche se la concezione delle elezioni come momento di controllo del passato più che approvazione del futuro è perfettamente compatibile con la società ideologica -un parlamento ideologizzato può essere giudicato per il grado di realizzazione del programma ideologico- Il semplice sottoporre a controllo dei fatti le ideologie è in realtà il fondamento di una possibile razionalità politica. A questo punto le ideologie, se sottoposte a controllo e abbandonata se non funzionano, diventano semplicemente delle idee, legittime come tutte le idee e tutte egualmente degne di essere considerate. Insomma il concepire le elezioni come momento di controllo di ciò che è stato fatto è una cosa profondamente rivoluzionaria nei confronti delle società ideologizzate.
Ora la forma migliore di controllo per una società che, come quella italiana degli ultimi cinquant'anni, si è incancrenita in una vita politica di guerra per bande, nessuna delle quali comunque responsabilizzabile per ciò che è stato fatto, è, molto probabilmente, del tipo che consenta una scelta tra due sole alternative: il sistema elettorale basato sull'uninominale maggioritario consentirebbe e costringerebbe al tempo stesso tutte le forze politiche a caratterizzarsi per i propri programmi, eliminerebbe i disastri della partitocrazia, attenuerebbe entro limiti comprensibili la corruzione amministrativa. Sembrerebbe una questione secondaria concepire il sistema elettorale uninominale come estrinsecazione del controllo piuttosto che come scelta di chi deve governare. Ma se si abbandona la caratterizzazione ideologica dei candidati, in base a che cosa si sceglie chi deve governare? Se rinunciamo all'assurda idea che sono 'i più bravi' che devono governare, perché non sappiamo come definire la bravura prima di averla messa alla prova, quale altro criterio resta se  non il giudizio alla prova dei fatti?
Sistema uninominale come miglior sistema di controllo nella situazione data, e non come miglior sistema di scelta di chi deve governare? Se non importa infatti come si eleggono le persone, ma come le si possono controllare una volta elette, il sistema maggioritario uninominale consente sicuramente di non votare la specifica persona che non si intende rieleggere, col che si otterrà di mandarla a spasso molto più probabilmente che non con il sistema proporzionale.
In questo contesto del controllo democratico esercitato attraverso il sistema elettivo uninominale, permane una questione irrisolta e trascurata: chi decide in merito ai candidati alle elezioni? Si dice" è il partito che decide chi sono i candidati, è il partito che decide chi è più meritevole di essere candidato, ovvero chi ha più probabilità di essere eletto". Ammettiamo che possa essere così. Quali saranno allora le modalità, i criteri con cui il partito decide chi è più meritevole di essere candidato? Prescindendo da problematiche platoniche, possono tali modalità astrarsi dalla logica della democrazia, che si esprime comunque con una votazione, aspetto formale e sostanziale della vita democratica? Oppure si ritiene che i dirigenti del partito, che sono a loro volta eletti, abbiano la prerogativa di decidere loro in merito ai candidati? Uno degli aspetti più deteriori della partitocrazia è la formazione delle liste elettorali, scelta insindacabile, anche perché non esiste nessuna legge che ne preveda le modalità, e totalmente abbandonata all'arbitrio delle segreterie dei partiti. Basterebbe questa osservazione, questa prova dei fatti, per suggerire di abbandonare tale modalità di formazione delle liste. Ma ci sono considerazioni di filosofia politica e della democrazia, oltreché di filosofia comportamentale umana, che evidenziano come non esistano criteri neppure in prima approssimazione certi che permettano di sapere in anticipo chi sarà un buon politico. Non esistono criteri di scelta per valutare chi sarà un buon medico, chi sarà un buon avvocato, chi avrà successo come attrice, chi avrà successo come scienziata, chi come pornodiva. Spesso la sorte, intesa come fortuna, gioca un ruolo fondamentale per il successo, inteso come riconoscimento collettivo del raggiungimento di obbiettivi prefissati. Se quindi una carriera, una professione, una attività lavorativa deve essere scelta, è preferibile che tutti abbiano uguali opportunità. Nelle attività prevalentemente sottoposte a giudizio estetico invece giocano predisposizioni individuali piuttosto forti: un pittore, un musicista, una poetessa, anche se egualmente vittime della sorte, hanno tuttavia delle capacità oggettivamente riconoscibili. Allora l'uomo politico è uno scienziato sociale o un artista?
Ci saranno anche le solite eccezioni, comunque soggette alle alterne vicende della fortuna, ma ordinariamente parlando è meglio che sia uno scienziato sociale: tutti possono divenire scienziati sociali, pochi invece hanno il dono dell'orecchio musicale, del senso dei colori e dei disegni, dei suoni e delle luci. Il principio del governo democratico non è la virtù, come invece sosteneva Robespierre, ma la possibilità di controllare le persone che hanno il potere. E chi mai controllerebbe un artista nella sua arte? Senza contare che nulla vieta a un artista di presentarsi per essere nominato candidato in un dato partito: il fatto che venga nominato in una elezione formale per essere candidato alle elezioni politiche è il presupposto fondamentale per mantenere gli eletti sotto il controllo degli elettori e al tempo stesso indipendenti da strutture di potere partitiche che fatalmente tendono a formare un diaframma tra eletto e elettori, una organizzazione gerarchizzata che per prima cosa tende a mantenere se stessa.

La concezione che non è necessario avere una ideologia per fare attività politica è spesso definita 'qualunquismo' .Il risultato della politica fatta in base al concetto che la realtà deve inquadrarsi nei programmi ideologici, considerando gli avvenimenti recenti e i più lontani nel tempo, può essere serenamente definita 'imbecillismo' .E' proprio degli imbecilli infatti non avvedersi dei propri errori, non imparare nulla da essi. Tuttavia anche programmi di realizzazione della democrazia, per es. il programma di uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge e altrove, possono essere perseguiti in modo imbecillista, cioè commettendo errori e insistendo sugli stessi. La politica è anche questo: sottoporre a esame critico non solo se stessi e le proprie idee, ma anche i compagni di strada che si dirigono verso i nostri stessi obbiettivi. Il perseguire uno stesso obbiettivo non protegge nessuno dal perseguirlo secondo una logica imbecillista. Sistemi elettorali diversi possono essere più o meno idonei a risolvere il problema del controllo democratico e dell'equilibrio tra i poteri a seconda della particolare situazione, storica, politica o sociale, qualunque cosa si intenda con queste espressioni.
Esiste poi la questione della legittimità della lotta politica, della necessità di garantire a tutti libertà di espressione in una logica di competizione delle idee e delle proposte politiche. Esiste soprattutto il problema della concezione dello stato prima ancora che della sua funzione. In tutte queste problematiche un atteggiamento pragmatico, razionale, pronto a riconoscere i propri errori, sembra comunque preferibile a una impostazione pregiudiziale, basata su certezze assolute. Spesso gli imbecillisti sostengono che la gente ha bisogno di certezze, ma non esistono risposte certe ai problemi sociali, si possono solo fare delle ipotesi, e poi verificarle nella realtà. Purtroppo costoro quando non riescono a trovare delle certezze, sembrano non esitare a inventarsele, e da queste invenzioni nascono tutta una serie di problemi. Si confonde tragicamente l'ideologia colla metodologia, e così si finisce per non capire che le uniche certezze possibili sono appunto metodologiche, frutto di un accordo sulle regole, come per esempio la certezza del diritto.
 
 
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