Jackson Browne: La Strada e il Cielo

di Carlo Massarini

Popster nr. 12 1977

 

“A proposito, che vuol dire Running On Empty?...”. E’ un Jackson Browne un po’ stanco dopo un tour americano di oltre un mese quello che si aggira a torso nudo sotto il bruciante sole californiano nel giardino della sua villa nelle colline di Hollywood. E’ anche un Jackson felice e rilassato, nonostante il telefono suoni in continuazione per organizzare la trasferta a New York allo show televisivo “Saturday Night”, e nonostante per la casa ci sia un viavai di amici, roadies e altra gente del suo entourage. E’ fine settembre, anche le ultime sei date all’Amphitheatre di Los Angeles si sono chiuse nel tutto esaurito, e può finalmente cominciare il meticoloso lavoro di riascolto dei nastri del tour, nato e portato avanti con lo scopo finale di dare luce al primo album dal vivo del ventottenne cantautore, certamente uno dei primi live ad essere composto unicamente da materiale nuovo ed inedito.

Running on Empty?... vuol dire correndo a secco, quando sei senza benzina ma la macchina non si è ancora fermata. E’ come vado in giro io, sempre, anche quando avrei in tasca i soldi per il pieno...”. “Uhmm... – osserva il vecchio fan che si considera attento lettore fra le righe dei testi del suo autore preferito ormai da anni, ancora elettrizzato dalla nuova musica che ha sentito provenire da lui nei giorni passati - ... io pensavo potesse voler dire “a secco” nel senso di quando corri e continui a spingere anche se non hai più energie dentro, e non vuoi e non devi crollare...”.

Jackson ridacchia: “Potrebbe!... molto poetico e accorato! Non so, questo è un album che non vuole scavare dentro nei significati. E’ un album sulla strada e della strada, non è un altro “Pretender”; è un album diverso che ho fatto per divertirmi, per cogliere altri momenti rispetto al passato. So che tu ami le ballate, lo spirito: ma quello c’è anche qui, solo che è diverso... credo ti piacerà... è un album nel complesso più a cuor leggero: sono piuttosto felice, adesso, e questo è quello che mi sentivo di fare...”.

 

E così, un “caldo” inverno è garantito anche quest’anno: a riguardare indietro, tutti gli album di Jackson sono usciti d’inverno, e anche questa volta non c’è eccezione. La cosa inusuale è invece che è passato solo un anno dall’uscita di Pretender, e per chi conosce la poca prolificità dell’artista, questo suona decisamente inusitato. Come, solo un anno? Che è successo? C’è un errore? No, qualcosa dentro di lui sta girando in maniera diversa, più dinamica e lucida che nel passato, con una direzione più chiara e determinata. Non si può incidere tutte le volte un album di amarezza e introspezione cosmica, il poeta deve essersi detto, e allora perché non fare un album che riflettesse anche l’altro lato di Jackson Browne, ovvero quello di una persona che vive apertamente, con una dinamicità e una energia quotidiana sorprendenti?

L’immagine dell’introverso solitario è dettata più che altro dagli ascolti notturni, in camera propria, malinconia e speranza a spingere pensiero ed emozioni, e non corrisponde totalmente al loro autore. Come è ovvio. Il quale ormai da figura amata e stimata ma relativamente d’èlite, è cresciuto a dimensioni davvero grandi, e non solo negli USA dove Pretender è stato a lungo nei primi dieci ed è avviato verso il milione di copie vendute. Nell’ultimo anno le tournée europee, giapponesi ed australiane (dove ha incontrato la sua attuale compagna, la biondissima Lynn che compare fra le foto dell’album) lo hanno portato di fronte a centinaia di migliaia di volti. E chi si sia mai trovato nella platea di un concerto di Jackson sa delle espressioni su quei volti, fra le più rilassate e disponibili, unite da un sottile filo i cui capi si raccolgono inevitabilmente al centro del palco dove una figura sempre nei limiti della compostezza canta di calore umano e di “disegni universali”.

Il rispetto e la stima sono rimasti immutati, ma il consenso è ora più vasto: quello che sorprende è quanto il nome apra molto porte in tutti gli ambienti, e come nei suoi confronti sul piano umano ci siano solo assensi col capo e sorrisi di benevolenza. Se devo essere sincero, è forse uno dei pochissimi che goda di questa sorta di alone intorno, e sorprende in un mondo dello spettacolo che vive di una concorrenza machiavellica. E’ decisamente una posizione invidiabile, ma inevitabile per la disponibilità. La generosità e, non ultimo, il talento con cui il ragazzo si muove da anni sulla scena e nella vita privata. Sono ormai dietro alle spalle i tempi dei pochi dollari a show come chitarrista di Nico al Dom di New York nel ’69, o gli anni di concerti solo, con chitarra e piano, in giro per i mille localetti sul suolo americano: ora Jackson è un performer di prima grandezza, e la maturazione come artista è stata esemplare.

Sono lontani anche gli anni della casetta a Echo Park (Los Angeles periferica e a poco prezzo) con Linda e Glenn Frey, Don Henley e J.D. Souther: ora è la sua grande casa ad accogliere amici, ed è una delle cose a cui è più attaccato. Una sola cosa è rimasta immutata a legare lui e i suoi compagni di allora, e costituisce la spina dorsale di tutto il loro lavoro, l’ispirazione che si scorge di frequente fra le righe dei testi: il mito della strada, della partenza, delle soste di un attimo e dei viaggi senza fine. E’ il grande mito americano, ma è anche l’ideale unto di riferimento di tutti i musicisti durante i loro spostamenti, spesso lunghissimi e sfiancanti. “Come quei guidatori, questa vecchia strada è tutto ciò che chiamo mio”, fa una strofa di Shaky Town. La strada, per il musicista americano in particolare, è tutto: è il filo che lega una giornata alla seguente, è il tempo che ti fa ritrovare solo con te stesso, è il luogo dove “the rider” passa buona parte della sua esistenza. E’ normale, quindi, che moltissime canzoni celebrino questo mito e vi costruiscono delle storie di vita. Del resto, dopo i racconti di Kerouac e il surrealismo di Dylan in Highway 61, bisogna ammettere che sulla strada può succedere di tutto. Jackson, che ha il dono della originalità, almeno nel fare o nel dire per primo quello che magari passa nella testa della gente da anni, ha voluto rendere un tributo alla sua Musa: ha raccolto dieci canzoni (di cui molte scritte da o con amici) che parlano tutte dello stesso tema, visto da molte angolazioni diverse, ha formato la migliore band che potesse riunire insieme, e ha deciso di incidere un album. E naturalmente dove si può registrare un album che parla della strada se non proprio “on the road”? Nasce così, fra applausi e rumori di autobus, ballate e rock’n’rolls il nuovo album di Jackson Browne...

 

Running on Empty

 

Guardando la strada che sfreccia sotto le ruote

Guardando indietro agli anni passati via come tanti campi d’estate

Nel ’65 avevo diciassette anni e correvo su per la 101

Non so dove sto correndo adesso, sto solo correndo avanti

Continuando a correre – correndo a secco

Continuando a correre – correndo alla cieca

Continuando a correre – correndo verso il sole

Ma sto correndo in ritardo

 

Devi fare il possibile per mantenere vivo il tuo amore

Cercando di non confonderlo con quello che fai per sopravvivere

Nel ’69 avevo ventun’anni e chiamavo la strada “la mia”

Non so quando quella strada è virata in quella su cui sto adesso

 

Tutti quelli che conosco, dovunque vado

La gente ha bisogno di qualche ragione per credere

Non so di nessun altro all’infuori di me

Se ci vorrà tutta la notte andrà bene

Se riuscirò a farti sorridere prima di ripartire

Guardando la strada che sfreccia sotto le ruote

Non so come dirvi quanto questa vita sia folle

Mi guardo intorno, verso gli amici a cui mi rivolgevo per aiutarmi a farcela

Guardandoli negli occhi vedo correre anche loro

 

Dolcezza, tu veramente mi tenti

Lo sai, il tuo modo di essere così gentile

Mi piacerebbe fermarmi un po’  ma sto correndo in ritardo

Sai che non so nemmeno quello che spero di trovare

Correndo verso il sole, ma sto correndo in ritardo.

 

Torniamo indietro di un mese, e vediamo il solitario sottoscritto sbarcare dal suo gigantesco Jumbo in quella che vista dall’alto si direbbe la città delle piscine, e non degli angeli. Sono i primi di agosto, e il viaggio è stato anticipato di qualche giorno: l’ultima telefonata con casa Browne aveva definito il programma di questo lungo tour/incisione estiva, e un appuntamento da qualche parte sulla costa orientale era sembrato un po’ troppo rocambolesco. Arrivare a L.A. senza casa e macchina, invece non è rocambolesco per niente, come chiunque potrà assicurarvi... E’ un lunedì mattina, e il numero viene composto con nella mente la sera prima, quando un appuntamento mancato mi aveva lasciato quattro ore da solo su Sunset Boulevard e garantisco che il celebre Viale del Tramonto, quando non si è almeno in due, di notte è la striscia di strada più interminabile e meno accogliente nella quale ci si possa trovare. Fantozzi non avrebbe saputo fare di meglio.

“Jackson?” “Kahrlo! Come va?” “Uhmmm... devo dire che la tua città non è poi molto accogliente...” “Kahrlo, devo dirti che questa città non è accogliente (homely) affatto, se non hai una casa che ti accolga! Cosa fai?” “Sono in cerca di una macchina e di una casa” “Puoi sempre stare all’Hotel California...” “Non sarà – memore del Beverly Hills Hotel degli Eagles – un pochino caro?!” “Oh no, è solo come chiamano tutti casa mia. Raggiungici oggi alle prove ai vecchi studi della COLUMBIA&&&9&

Intorno a un colossale capannone c’è molto movimento; dentro, in fondo, un palco immenso raccoglie la massiccia amplificazione di Russell Kunkel, Lee Sklar, Craig Doerge e Danny Kortchmar, al secolo conosciuti come The Section, dopo essere stati il gruppo di James Taylor e (i primi) session men in molti dischi di Jackson stesso. Decine di persone si muovono senza agitazione fra decine di casse, banchi a qualche centinaio di piste, recipienti pieni di bibite ghiacciate (birre soprattutto), il “pretendente” non mi riconosce con barba, ma l’accoglienza è molto calorosa, e si sprecano le presentazioni ai presenti, gentilissimi tutti. Scoprirò poi sempre più che quello che dice Jackson lo ha detto Jackson, che oltre ad essere amico di tutti, è anche il boss. Ed è un regista molto in controllo di quello che succede intorno; confessa che hanno solo una settimana di prove alle spalle ed è l’ultimo giorno prima della partenza degli strumenti per la prima data nel lontano Illinois, ma che tutti i musicisti sono talmente dotati che va bene anche così. “E’ il miglior gruppo che ho mai avuto, you know!”. Poi sale sul palco, chiama a raccolta le truppe e per un’ora passa attraverso buona parte del repertorio fermandosi ogni tanto per affinare un passaggio o dare più risalto alla ritmica. Il fido e geniale David Lindley è ancora al suo posto, seduto con sulle ginocchia la magica slide dalla quale estrae sonorità così melodiche e lancinanti da costituire lo spettacolo nello spettacolo dell’inseparabile amico. Jackson si ferma un attimo per spiegare qualcosa e il piccolo Ethan, tre-enne biondissimo con faccia da impunito perenne e maglietta “Sono quasi famoso” urla dal fondo “Daddy?” Jackson lo guarda e da lontano gli chiede “Cosa?! Vuoi ballare? Vuoi ancora un po’ di musica, eh? E’ in arrivo!”. Ancora un attimo e tutti e sei si immergono in uno dei pezzi più saltellanti, la vecchia e poco conosciuta Walking Slow. Pochi minuti dopo si chiude baracca e sul transatlantico a quattro ruote appena affittato seguo la macchina su per le colline. Una lunga discussione sulla neo-decadenza degli Eagles chiude la serata, in cui Jackson insiste nel concetto che Joe Walsh è per loro ben più importante di Bernie Leadon: le mie osservazioni un po’ critiche sulla melensaggine di alcune parti di Hotel California mi sembra lascino una traccia amara nel loro vecchio amico, e forse non è il caso di mostrarsi più rigido di quando si è a casetta e sugli Eagles ci si sogna pure...

Il pomeriggio dopo vengono a fare un’ultima prova i due background vocalists, Rosemary Butler e il vecchio amico Doug Haywood, già presente come bassista in For Everyman e Late for the Sky.

Jackson prende l’acustica e sul terrazzo di sala i tre ripassano ogni passaggio vocale del concerto, provando eventuali variazioni ed eliminando con meticolosità i punti più fragili della loro intesa.  Poco a poco scende la notte, e un filo di luce illumina appena l’agenda su cui annoto qualche impressione, mentre alcuni cori mi rimangono impressi a fondo nella mente. Uno in particolare, da Pretender: “...leavin’ nothing but to choose off and fight!...” La complicità di una poltrona-letto mi fa scivolare a poco a poco in un piacevolissimo torpore cullato dai ritornelli di molte canzoni preferite, ed è Jackson a svegliarmi quando i due sono andati via: “Hey! Niente sonno! E’ l’ultima sera: andiamo, che voglio farti conoscere i miei amici!”. Nel paese dei limiti di velocità ferrei (oltrechè bassi) Jackson è una sfida perenne alla stradale, e mentre viene giù a catapulta dallo stretto canyon mi convince sempre più che sarebbe uno dei pochi americani a suo agio nel traffico romano. La prima fermata è allo studio grafico di Jimmy Wachtel per alcuni ritocchi al programma ufficiale della tournée le cui centomila copie verranno distribuite gratuitamente agli intervenuti, e la seconda è a casa del fratello Waddy Wachtel. Il chitarrista di Linda Ronstadt e di moltissimi altri album del giro californiano, riconoscibile per la cascata di capelli biondo cortocircuitati rivaleggia con Marley in alcuni topici da intenditori, (...), e ce lo mostra con sentimento. Scorrono i nastri del nuovo Warren Zevon, a ogni assolo di Waddy sottolineati dall’entusiasmo rock’n’rollesco del loro autore, dagli apprezzamenti finto-seriosi del loro produttore, e (infine) dalle considerazioni un po’ stravolte del (loro) sottoscritto, il quale si chiede se non fosse mai che qualcuno portasse di peso questo Scarpantibus in Italia a fare un corso di aggiornamento rock per qualche Teatro Tenda...

Alla terza birra gelata, prima di crollare al suolo, ci si congeda, e i due si scambiano grandi promesse di incontri negli “incroci” dei loro due itinerari. L’ultima immagine di Waddy mentre ci allontaniamo è quest’ombra con due spioventi paglierini in testa, sulla porta di casa, fattissimo, che ancora ridendo saluta e raccomanda di stare attenti a non pestare le cacche del suo cane sul prato...

C’è una vecchia promessa da mantenere, un incontro con Don Henley, ma l’”aquila” è introvabile negli studi di registrazione dove sta producendo l’album di una sua sconosciuta protetta, e la macchina si inerpica ancora per qualche tortuoso canyon nelle colline di Hollywood, a vedere di trovare ancora almeno l’altro “figli del deserto”, come insieme a Don e Glenn Frey amano definirsi quando compaiono nei cori dei solchi californiani: John David Souther – avete mai incontrato due occhi più chiari e assenti dei suoi? Lo troviamo cinquanta metri più giù di casetta sua (casetta, si fa per dire), nell’accogliente dimora del gentilissimo Tim Schmit, allora cantante e bassista (Poco) richiestissimo, per esempio dagli Eagles stessi che volevano con lui sostituire il dimissionario Randy Meisner. (credo che ci stiano pensando ancora adesso: take it easy, ya know). Jay-Dee, come tutti lo chiamano da sempre, è affondato in una poltrona, e coincide perfettamente con la sua immagine ufficiale: bicchiere di liquore in mano, jeans e giacca di velluto, i capelli e la barba rossicci che racchiudono due occhi trasparenti ma (finalmente!) vivi, e una bocca dalla quale le parole si alternano a ghigni, brevi e nervosi come i pugni che si danno per scherzo sulla spalla agli amici e ti lasciano dolorante a far finta di nulla... C’è anche “l’uomo che ha inventato l’atteggiamento”, come Jackson lo sfotterà sul palco al momento delle presentazioni del gruppo, ovvero Danny Kortchmar, chiamato nei momenti buona “Danny boy”. Danny è un chitarrista della generazione tozza, con legami di fratellanza con i vari Joe Walsh: Jackson lo guarda finto-preoccupato, e lo prega di frenarsi, di non gettargli le ballate in pasto alla heavy-rock. Pessima mossa: il newyorkese dalla lingua svelta e J.D. suo corrispondente altrocostiero, mettono in mezzo Jackson in men che non si dica: “... ooh Jackson, ci lascerai qualcuna delle tue fans? Sai, la gente che verrà è pazza di te, vengono tutti a vedere le tue apocalissi, il profeta of the doom and gloom (del giudizio e della malinconia). Non ci sarà da disperarsi troppo, vero? Sul serio?”. Jackson se la ride di gusto e fra sfottimenti e allusioni la notte si fa più profonda. Quando sul sentiero del garage ci salutiamo con J.D., Jackson gli chiede se gli andrebbe di fare un’intervista per una rivista in una lingua che non leggerà mai... J.D. ghigna, “sure! I’ll talk to ya, Kahrlo...”. A tutt’oggi, aspetto ancora di sentirlo. In compenso, da quella notte ho cominciato a capire come in California dire di fare una cosa è un fatto, ma si può discutere a lungo sul “quando”. Se qualcuno vi dirà mai “ci vediamo più tardi”, sappiate fin d’ora che “più tardi” è “da adesso fino alla fine dei secoli”.

E’ comunque un Jackson diverso, quello che sfreccia verso casa, cambiando le marce a scatti come in un grand-prix: più familiare, più a suo agio. E lo dice anche, con una sfumatura di orgoglio: “questi sono i miei amici! E’ tutta gente che lavora duro, sai. Tu parli della decadenza hollywoodiana, ma devi sapere che lavoriamo tutti come matti”. “I’m a work junkie”, sono un drogato di lavoro, ha detto un anno fa in una intervista. Ed è vero. Per tutto il tempo che l’ho visto è stato sempre in movimento, o sotto pressione, come si dice.

La mattina dopo lo incontro sulla porta di casa nel viavai della partenza e gli racconto di una battuta di G. Luzi, Roma, quando mi chiedevo perché alle 9/10 di mattina non lo si trovasse già più in casa. “Sai, il nostro “sospetto” è che tu in realtà scriva queste canzoni per hobby, di notte, ma che in realtà la mattina esci di casa alle 8 in giacca e cravatta per andare a qualche riunione, da presidente del consiglio di qualche multinazionale. Che dici?”. Jackson sta per rispondere qualcosa, ride mentre guarda la fila di valigie in sala, poi l’autista nero flashosissimo in occhiali specchiati lo incrocia e gli leva il tempo, lasciando tutto in sospeso. La “Jackson Browne Foundation”: non suona poi male!...

 

THE ROAD AND THE SKY

 

È il nome del catalogo della tournée: 27 date in giro per gli Stati Uniti, dall’Illinois al Maine, dal New Jersey all’Oregon, e poi il gran finale californiano: S. Francisco, Santa Barbara e le ultime sei date nella home-town, anzi, a uno sguardo da casa, all’Universal. Il progetto è assai ambizioso: registrare tutto quello che succede, di musica e di vita vissuta, 24 ore su 24 se serve, per poter riprodurre un concentrato di vita in tournèe. “Quanto costerà? Dai 100 ai 200.000 dollari”, mi aveva risposto tranquillo il giovane manager Howard Burke, “ma non ti far impressionare: questo disco sarà d’oro già in uscita, e probabilmente arriverà al platino. Per cui il rientro sarà almeno di un milione di dollari”. Uhmmm, il “fratellino” di qualche anno fa ha veramente preso il volo, eh? Ma la dimensione del music-business americano è questa, e ormai qualunque artista anche di medio nome arriva al disco d’oro (un milione di fatturato, quindi 300/350.000 copie circa). Quando l’ultimo giorno sfotterò Jackson dicendogli che in realtà avevo capito tutto, che il tentativo era di vendere più del live di Peter Frampton, la risposta sarà sincera quanto tranquilla: “Devo dirti che non mi dispiacerebbe mica vendere 11 milioni di dischi, sai. Non mi spezzerebbe mica il cuore... forse mi creerebbe dei problemi, questo sì...”.

 

Altri problemi piccoli e grandi inseguono la carovana viaggiante per le autostrade americane, e vengono puntualmente risolti dal suo ufficio. Il quale non molto distante dalla casa (un metro in linea d’aria dal suo letto, nel basement sottostante...), continua un lavoro non certo frenetico, ma sufficiente a mantenere nell’ambito familiare una dose minima di tensione, nell’attesa sempre crescente di rivedere sbucare il “capo”, in fondo al rettifilo della bassa California. Ci sono i programmi da spedire in qualche sperduta località dell’est; insieme, le sedie da regista per i tecnici del suono, costretti per necessità ad un vero tour de force. E poi, il grande clou scenico: il fondale, un lungo telone stampato con questa foto di autostrada regalata a Jackson da qualche amico, e che compare in tinta seppia sulla copertina dell’album, legato alla realtà della band dalla purpurea batteria di Russ Kunkel. Jackson chiama ogni tanto per dire che la musica sta migliorando e crescendo sempre più, e – messaggio personale – di non seccare la sua amica Joni che odia qualsiasi approccio giornalistico, e che se J.D. non si fa vivo è normalissimo, visto che abitualmente non risponde nemmeno alle sue chiamate... Ethan continua a scorrazzare per casa nudo o con i jeans due taglie più grandi che lo fanno inciampare, e una mattina, appena caduto dal letto e a dir poco ancora in trance, me lo vedo sbucare a due metri d’altezza dall’armadio sopra il frigo in caccia di biscotti. Elizabeth, la preziosa tutrice boliviana tuttofare, organizza parties per lui in giro per il r’n’roll set di L.A. per i suoi pomeriggi mondani, e chiama a sua volta i genitori per i parties suoi. Nadine, segretaria, racconta di come qualche mese prima Jackson volesse fare il manager di se stesso, e la rivista Rolling Stone gli abbia subito telefonato per intervistarlo sulla stranezza (in Italia può essere normale e forse necessario per il bilancio, ma nella landa dei manager la cosa può destare quanto meno curiosità). Il giorno dopo Jackson ci aveva ripensato dicendo “eh, sì, credo proprio di aver bisogno di un manager!”... Quasi ogni giorno, fra bollette di affitto di limousines nei più disparati posti del mondo, arrivano regali di ammiratrici incartati in pacconi o pacchetti con fiori, fiorellini, disegni, cieli, tramonti, albe e qualche altro topico ancora delle canzoni destinatario. Una mattina una timidissima fanciulla di stampo medio-californiano (bionda, efelidi, shorts, piedi nudi) suona alla porta, consegna una lettera gonfia come un incartamento ministeriale, si raccomanda che gli arrivi e fugge via. Mah!... Alcuni doni sono splendidi, come un pierrot di seta ricamato a mano che Ethan sbatacchia un po’ con indifferenza e poi abbandona in un angolo, fra gli sguardi fulminanti dei presenti... La porta di casa è sempre aperta, per cui ogni tanto entra qualcuno e ci incrociamo con un reciproco sguardo interrogativo... Il marito di Nadine, John Mauceri (batterista di Jackson nella tournée precedente) narra un po’ di aneddoti e scherza sul magnetismo del cantante: “Oh qualsiasi cosa succeda in sala, non importa. Possono cadere i drappi, i muri, il cielo: tutti gli sguardi sono incollati su un volto solo, dall’inizio alla fine...”.

Un giorno sfogliando fra alcune carte e fotografie, trovo un testo di Danny O’Keefe, e mi ricordo qualcuno dire che Jackson aveva incluso la canzone nel suo repertorio. The Road era il titolo, e mentre i versi mi scorrevano sotto gli occhi, mi chiedevo che musica potesse avere un testo così amaro, e non mi meravigliavo affatto che Jackson l’avesse scelta...

 

Autostrade e sale da concerto

Una buona canzone ti porta lontano

Scrivi della luna

E sogni delle stelle

Blues in vecchie camere di motel

Ragazze nelle macchine di papà

 

Canti delle notti

E sogni delle cicatrici

Caffè alla mattina, pomeriggi alla cocaina

Parli del tempo

E sogghigni sulle stanze

Telefonate interurbane

Per raccontare come stai

Ti dimentichi delle perdite

Ed esageri le vittorie

E quando ti fermi per fagli sapere

Che ce l’hai fatta

È solo un’altra città lungo la strada

Le donne vengono a vederti

Se il tuo nome si fa ancora ricordare

Non ti danno certo niente

E diranno che ti hanno conosciuto bene

Così tu dici loro che ti ricorderai

Ma loro sanno che è solo un gioco

E lungo il cammino le loro facce

Cominciano a sembrare tutte uguali

E quando ti fermi per fargli sapere

Che ce l’hai fatta

È solo un’altra città lungo la strada

Bene, non è solo per i soldi

Ed è solo per un attimo

Ti aggiri per le stanze

E scorri via sulle miglia

Giocatori d’azzardo nel neon,

aggrappati alle chitarre

hai ragione sulla luna

ma ti sbagli sulle stelle

e quando ti fermi per fargli sapere

che ce l’hai fatta

è solo un’altra città lungo la strada.

 

Intanto, altri concerti riempiono le mie serate, il ritorno e le sei date si avvicinano, e con esse la richiesta dei biglietti. La pressione si fa così alta che si decide di anticipare la festa, malfidando della mondanità caotica delle serate di Los Angeles, e si va su a Santa Barbara: un’ora di macchina, concerto all’aperto e backstage molto familiare. Tanto che del concerto non sento quasi nulla, e sono anche lontano dal fronte-palco quanto Ethan, avventuratosi ciondolante per il palco in un momento acustico, viene acchiappato da papà che se lo prende in braccio e fa: “Uhmmm, volevi vedere che faceva daddy qui da solo al buio, eh?” Ethan si mette una mano sulla fronte per evitare i riflettori, vede la folla, fa timidamente hello!, viene spaventato dal boato di hello!! che gli tornano indietro, e sgambetta via dietro gli altoparlanti. Papà può continuare.

Quando due ore dopo la fine si ritorna a Los Angeles, il mio compagno di macchina è David Lindley, dall’aria e dallo spirito di magico folletto, e dal talento proverbiale: forse la più lirica spalla strumentale che qualsiasi autore possa vantare, in questo momento. Questo disco è anche suo, è lui a renderlo prezioso oltre il possibile, con la sua lap steel guitar, tavoletta da tenere in grembo, e il suo romantico ed evocativo violino. Alcuni brani hanno solo lui e Jackson a cantare dal cuore, e sono certo fra i più intimi e ispirati. Con la mente riportano indietro negli anni, a quando apparivano in solitario duo, ai tempi in cui David restò affascinato dalla sincerità di quel ragazzo e delle sue fragili poesie. Di Jackson parla ancora così: “vedi io credo che lui sia sul gradino più alto, dove puoi trovare i pochi che cantano veramente con l’anima... Janis, Otis.. anche Jackson è un soul-singer, capisci? Così profondo e così sincero... – si ferma un attimo, forse non vuole essere così totale. Ma scuote appena la testa dolcemente, e continua – ohh, non potrei suonare altro che con lui! Lui parla anche per me, e io posso vestire nel buio queste poesie..”.

A casa Browne c’è un po’ di gente, tutti ben alti di spirito. Jackson è ancora carico di energia post-concerto, e sembra confermarmi che andare a letto tardi è una cosa, ma essere spiriti notturni è ben altra. Si suonano i nastri del concerto e Jackson mi prende così di impeto e di disponibilità che non ho nemmeno il tempo e il coraggio di accendere il registratore (suo, peraltro). Ma è tutta una descrizione di situazioni, più comprensibili adesso che il disco è a portata di mano. “Abbiamo inciso un po’ dovunque, molte ore al giorno, Magari proprio quando si spegneva succedeva qualcosa di imprevisto che sarebbe valso la pena incidere, ma che puoi farci? Però ci sono stati momenti magici, e sul disco ci saranno Abbiamo registrato sul bus, nel backstage, in camere d’albergo, di fronte a folle di ventimila persone. Ma c’è un senso di unione che spero venga fuori, sull’album”.

E sul disco questi momenti sono il tocco in più che rende questo live un disco definitivo e non un passeggero in transito. “Nothing but time”, scritta al volo con H. Burke sul bus, è un delizioso r’n’roll acustico rilassato secondo le vecchie tradizioni californiane, col ritmo condotto dalla chitarra di Kortchmar e sostenuto dal piano elettrico di Craig Doerge. Il tutto si snoda con nel background il monotono e costante rombo del “Silver Eagle” diretto a sud, sull’autostrada per il New Jersey:

 

Scorrendo giù per la 295 uscendo da Portland, Maine / Ancora alti per la gente lassù, senza sentire la fatica / Dobbiamo arrivare in New Jersey, montare tutto e rifarlo daccapo / Ho una bottiglia di vino – falla girare / Ho una linea bianca spezzata – sono ancora sobrio / Non c’è nient’altro che il tempo fra questo Silver Eagle / E quel confine del New Jersey ...

 

Nel backstage di Saratoga Springs Jackson si accompagna al piano con le armonie vocali di Doug e di Joel Bernstein in una canzone scritta con Dan “Buddha” Miller, semplicissima melodia per una storia amara e reale, vestita di malinconia; la storia di una groupie, “Rosie”:

 

Immagino che avrei potuto sapere fin dall’inizio

che era venuta per una star

avrei potuto dire alla mia immaginazione di non

correre troppo lontano

per tutte le volte che mi sono scottato

a quest’ora tu penseresti che io abbia imparato che vale quello che sembri,

non quello che sei...

 

Nella camera 124 dell’Holiday Inn di Edwardsville la seconda voce è invece quella dell’autore di “Shaky Town”, ovvero il buon Kortchmar:

 

Ho visto di persona quelle notti e via

Devo aver suonato in mille bands

Ma sono solo qui stanotte, domani sarò andato

Ho visto la gente mostrare i loro lati più neri

Li ho visti morire per il loro sciocco orgoglio

E quei camionisti chiedono sempre quella solita vecchia canzone...

... Ho sentito tutti quei racconti di iella nera

da tutti voi maschi americani

ho sentito tutte le vostre bugie sugli amori conosciuti

e ho seguito quei cartelli autostradali

e sono corso giù quelle sottili linee bianche

come quei guidatori, questa vecchia strada è tutto ciò che chiamo mio...

 

Room 124, a pensarci bene, dev’essere stata una serata niente male: anche la “Cocaine” del Rev. Gary Davis è stata incisa lì. Jackson, con aria molto divertita di complicità, mi spiega quasi il testo, e con esso capisco anche le risate che accompagnavano il brano in concerto. Basato tutto sui doppi sensi:

 

Parlavo con il mio dottore giù all’ospedale

E lui ha detto: “Figlio, dice qui che hai 27 anni,

ma è impossibile

Cocaina, si direbbe che potresti averne 45

Ora sto perdendo contatto con la realtà

E sono quasi esaurito di tiro

Una così bella linea – detesto vederla sparire

Cocaina, circola per tutta la mia mente.

 

“Stavamo in questa stanza, quando David ha iniziato una di quelle sue strane conversazioni: “Ci vuole una mente lucida “ “Vuoi dire che ci vuole una mente lucida per prenderla, o per non prenderla?...” “ Ci vuole una mente lucida ... per farcela!”. E se pensi che le canzoni che hai sentito siano lontane da altre del passato, ma devo dirti che non me ne preoccupo, tutto funzionerà a dovere. Se ti siedi al piano per sei mesi da solo, allora magari può venire fuori un altro “Pretender”, ma ora io non ho voglia di stare seduto. Sono felice, sai!... E ho una band, ora! Questa gente è veramente notevole, ci sono mille idee che rimbalzano e vanno solo concretizzate. Ora ho delle responsabilità, sono il regista! - ride e aggiunge con una smorfia di soddisfazione – and it’s gettin’ better, all the time! Anche con David... una sera abbiamo incominciato questa improvvisazione al piano e violino sull’introduzione di “For A Dancer”: oooh, scivolava come per magia...”

Magia appunto. E questo film mentale mi porge in sequenza il palco dell’Universal, la sera dopo, quella d’apertura. Ancora adesso mi fanno uno strano effetto questi due biglietti in mano, scelti accuratamente quando erano arrivati in ufficio gli omaggi, e solo uno da dover consegnare all’ingresso. Folle ironia della sorte, pensavo quella sera dopo che non avevo trovato nessuno fra le mie limitate conoscenze interessato realmente a venire.

Pensavo che a Roma per quel biglietto avrei trovato in un’ora cento persone disposte a passare sopra anche alla nonna: era un sorriso un po’ amaro, il mio, devo riconoscere...

Nel backstage all’aperto che dall’alto della collina spazia sulla enorme S. Fernando Valley, illuminata a tappeto c’è molta gente davvero: addetti ai lavori e artisti amici di vecchia data, parenti, e nessun giornalista; il fratello Severin, che suona con discrezione in piccoli bars periferici, Warren Zevon, Al Stewart, Paul Getty jr. e molti altri volti a loro pieno agio.

Quando entro nell’enorme anfiteatro è “The Fuse” a introdurmi nel clima, le luci rosse che avvolgono la figura perennemente in jeans e camicia linda e garbata. E’ una strana atmosfera, quella intorno a Jackson: il ritorno a casa è sempre un effetto peculiare, immagino, e il pubblico è quello caciarone e fin troppo affettuoso – fra i pezzi fischi, urla e risate – in contrasto con un Jackson riservatissimo e laconico, tranne che per scherzare sulla stranezza dell’essersi svegliato nel suo letto quella mattina a due miglia da dove stava adesso.

Annunciando “The Road” scherza e aggiunge “ma ci sto ancora, su quella strada, on the road, sapete”!, ed entra in una parte acustica del set davvero toccante: “Cocaine”, a cui ogni sera vengono cambiate le liriche (a seconda di chi si presenta alle quattro del mattino), le classiche “Late Show” e “For A Dancer”, con un Lindley così vellutato e ispirato da destare un sottile brivido difficile da dimenticare, e la malinconica ballata scritta con Valerie Carter e Lowell George, un gioiello dal fascino ipnotico, “Love Needs a Heart”. La versione del disco, avvolta dall’eco dell’enorme anfiteatro all’aperto, è quella di quattro sere più tardi, quando in platea ci saranno gli altri coautori, e Jackson la canterà come si può cantare qualcosa a chi l’ha vissuta con te. Ancora un amore infranto, e un testo di visioni di una bellezza nella sua migliore tradizione:

 

Forse la cosa più difficile che io abbia mai fatto

È stato allontanarmi da te

Lasciando alle mie spalle la vita che avevamo incominciato

Ho spaccato me stesso in due

Orgoglioso e solo, freddo come una pietra

Rotolando giù per quella collina nella notte

Potevo vedere la sorpresa e il dolore nei tuoi occhi

Dietro a ogni lampeggiante luce della città

L’amore ha bisogno di un cuore, e io devo scoprire

Se l’amore ha bisogno di un cuore come il mio

L’amore non mi viene vicino, non mi sente nemmeno

Passa oltre il mio cartello di sfitto

L’amore ha bisogno di un cuore, fiducioso e cieco

Vorrei quel cuore fosse il mio

Orgoglioso e solo, freddo come una pietra

Ho paura di credere alle cose che sento

Posso piangere con i migliori, posso ridere con gli altri

Ma non sono mai sicuro quando sia reale

E può darsi che sia la cosa più dura che io abbia mai fatto

 Ma a parte tutto quello che spero di trovare

Dov’è il cuore che ha cercato il mio?

Spero che mi troverà in tempo.

 

Fra il pubblico c’erano nelle prime file un gruppo di fan(atici) che a ogni canzone si alzavano in adorazione. Ci ridiamo sopra, ma Jackson non sembra apprezzarli molto: “Apprezzarli? Non li apprezzo per niente: gente che si inchina facendo “Allah, Allah”? Oh no, non mi aiutano affatto... Danny veniva da me e mi diceva “Stanno piangendo”: tu pensi che mi facesse piacere? E a quelli intorno a loro faceva piacere? Ma questo è il pubblico di L.A.: 5% di pazzi che urlano, e dietro le quinte troppo chiasso. No, non c’è molta emozione a suonare qui, solo un po’ di nervosismo. Ma l’ultima sera abbiamo suonato bene, e sono contento ci fosse Lowell (George): questa è la gente per cui suono, qui, Lowell, Don, J.D..”

Immagini e melodie continuano a scorrere, attraverso le spirali di “For Everyman”, i rock di “You Love the Thunder” e “Running On Empty”, per arrivare a una esecuzione di “Before the Deluge” da conquistare anche il marmo, con il violino di Lindley ad accompagnare questo testo di apocalisse e fede nella natura, per lanciarsi poi in un finale di interminabile creatività e gusto.

Parte del testo (Alcuni di loro erano arrabbiati / per la maniera in cui la terra era sfruttata / da coloro che avevano imparato a forgiare la sua bellezza in potere) è stata presa da Pacific Alliance, una organizzazione di salvaguardia ecologica anti-atomica, come loro iconografia ufficiale, e Jackson ricorda loro e la loro causa.

La solitudine desolata di “Sleep’s Dark and Silent Gate” scivola nella maestosità di “Pretender” e lascia ottomila persone in piedi a richiamarlo per i due brani che chiudono anche il disco, dedicati ai roadies e a coloro che vengono sulla strada con lui, e al pubblico: “The Load-Out”, sfocia con un sorriso in una ripresa del classico degli Zodiacs, “Stay” con una “rara apparizione vocale” del falsetto di David Lindley, impettito e ammiccante, violino stretto al petto e la rilassata confidenza degli ultimi istanti di concerto da parte della Section, per l’occasione backing-group preciso ed eccellente come pochi.

Due giorni dopo il cerchio si chiude: entrambi in partenza per New York – chi per un’apparizione TV e chi per tornare verso i patri lidi – ci si vede nel primo pomeriggio per un’ultima chiacchierata. Jackson sta ascoltando una registrazione di “You Love the Thunder” dal New Jersey, entusiasmato dall’eco dalla folla e dalla potenza di quell’esecuzione in confronto al “mortorio” di Los Angeles.. “Senti la differenza con Los Angeles? Queste canzoni avrei potuto registrarle in studio, ma ora non sono affatto sicuro che il sound sarebbe stato migliore! L’album è nato per dipingere la follia della vita in tournée: come fai a raccogliere l’energia di diecimila persone e poi andare a dormire? Continui a suonare, a fare musica, sul bus, in camera, così ho avuto la possibilità di incidere delle cose che magari in studio non avrei mai fatto. Qualche volta abbiamo suonato all’aperto in posti che chiamiamo “toilets” (cessi), perché il suono è tremendo, pieno d’eco: eppure quelli saranno i nastri migliori per l’album, ti assicuro che ventimila persone che applaudono creano qualcosa di memorabile”.

Jackson polemizza con il penna a sfera locale, R. Hilburn dell’L.A. Times, suo estimatore deluso, quasi tradito: “Come posso stimare uno che ha ancora voglia di sentirmi scrivere “Late For The Sky”? Lui lo vorrebbe, ma sarebbe poi il primo a criticarmi per la involuzione... Il suo problema è che non si ricorda quello che dice: l’ultima volta ha detto che la band era un mucchio di indescrivibili nessuno, questa volta erano troppo bravi, troppo professionali... Il problema della gente come lui è che ti mette in guardia come se tu non avessi il diritto di fare quello che ti senti di fare, come se le canzoni le scrivesse lui. Questo album non è “Pretender”, un album sulla strada non può parlare delle stesse cose: per me è come fare un film sul bebop, come New York New York, dopo averne fatto uno su un tassista (Taxi Driver) nevrotico. Fra un po’ la gente mi chiederà le canzoni di questo disco, e io ne avrò già altre pronte. In effetti, già adesso sto lavorando all’album successivo, che inciderò da gennaio a marzo. Lì c’è una canzone che ti piacerà: triste triste.. ma non puoi dirlo finché non sono finite, perché molto dipende da come ti sentirai quando le incidi. Ma credo che sia ok scrivere una canzone che non parli dei tuoi sentimenti più profondi, e per coloro a cui non piacerà l’album live, ci sarà quest’altro in arrivo...

E se scrivo con altre persone non scriverò “Pretender”, ma qualcosa che mi appassiona allo stesso modo. Chi può dire che non lo dovrei fare? Non posso permettermi di pensarla come Hilburn, che queste “non mi faranno ottenere nessun posto nella Hall of Fame”: chi se ne frega, quando sei nel mezzo della notte, e vuoi finire una canzone con il tuo migliore amico?...”

 

Un’intervista assolata

 

E così, come dicevo prima, ancora una volta ci sono due facciate di intensa comunicativa da porre sul piatto: e la cosa che fa più piacere è che il disco regge il confronto con qualsiasi altro album di Jackson, per come è suonato, per la sua straordinaria omogeneità e compattezza, per come è interpretato. Jackson canta queste dieci canzoni con la passionalità che dal vivo fa vivere i suoi testi ogni volta come se fosse la prima, e credo che questo sia il massimo che un artista può dare. Anche questo inverno, le notti hanno qualcosa di cui riempirsi...

 

Carlo Massarini